OLTRETORRENTE
(trilogia)
di Farfallina

AVVERTENZA

Il linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto possa offenderti sei invitato a
uscire.

 

     ELENA


   
   Dall'altra parte del Ponte Caprazucca riuscivo a distinguere le sagome medievali delle case dell'Oltretorrente. Scambiai un ultimo bacio con Elena, dopodiché rimasi ad ammirare le movenze del suo fondoschiena, malamente illuminato dalle luci dei lampioni, mentre camminava sulla banchina del ponte allontanandosi da me. Girò un paio di volte il capo nella mia direzione, ma non accennò a un gesto né pronunciò una sola parola, infine scomparve alla mia vista inghiottita dal buio delle tenebre.
   Avevamo abbandonato per tempo Piazza Garibaldi poco prima che i celerini, intervenuti in gran numero a presidiare la piazza, caricassero la folla di gente accorsa lì per boicottare il comizio di Giorgio Almirante organizzato dal Movimento Sociale, sommergendo di fischi e urla la precaria tribuna messa su alla bene e meglio da cui il leader politico avrebbe dovuto parlare.
   Il cordone di poliziotti, in tenuta antisommossa,  era sistemato agli ingressi della piazza a difesa del palco da cui i neofascisti erano intenzionati a effettuare il comizio elettorale, del tutto ignari che nottetempo alcuni dipendenti dell’azienda municipalizzata del gas, dopo essersi introdotti nei cunicoli delle fogne, avevano sistemato alcune bombole di un composto  chimico, maleodorante, in prossimità dei pozzetti per il deflusso delle acque stradali, nel presunto luogo del comizio, aprendo i rubinetti delle bombole al momento opportuno facendo diventare l’aria della piazza pressoché irrespirabile.
   La puzzolente miscela gassosa, di per sé innocua, era servita a disperdere l'adunata dei militanti del Movimento Sociale raccolti attorno all’onorevole Giorgio Almirante, giunto appositamente da Roma per effettuare il comizio, ma subito dopo la  fuga di gas era scoppiata, violenta e improvvisa, la carica della Celere per disperdere la folla di antifascisti accorsi nella piazza.

   Elena e io eravamo arrivati in Piazza Garibaldi in netto anticipo rispetto l’ora d’inizio del comizio. Fare lotta politica manifestando i nostri ideali, confusi fra i militanti della sinistra, ci rendeva fieri di noi stessi.
   Il tentativo dei neofascisti di effettuare il comizio nella piazza dove in passato erano stati trucidati alcuni partigiani per rappresaglia dai nazifascismi, era una chiara provocazione per la città di Parma medaglia d'oro della Resistenza.
   A scuola, con i compagni di classe del liceo Romagnosi, avevamo discusso a fondo se aderire o meno alla manifestazione di protesta indetta dal Movimento Studentesco. Durante un acceso scambio di vedute avevamo votato compatti per l'adesione. Ma nel punto di ritrovo, fissato con i compagni di classe, davanti al Cinema Orfeo, c'eravamo solo Elena e io. Gli altri erano rimasti tutti a casa.

   Le forze di polizia avevano istituito un muro umano invalicabile tutt’attorno alla piazza dove avrebbe dovuto svolgersi il comizio impedendo, di fatto, l'accesso a curiosi e manifestanti di sinistra.
   Celerini e carabinieri, in tenuta antisommossa, erano provvisti di scudi, elmetto, fucili, manganelli e quant'altro sarebbe servito a offendere. Manipoli di agenti di polizia, raggruppati nelle vie adiacenti Piazza Garibaldi, erano pronti a intervenire in caso di necessità. Altri agenti, saldi sulle jeep e nelle autoblinda parcheggiate nella vicina Piazza della Pilotta, erano in attesa di dare supporto ai compagni d'armi.
   Mi persi a guardare i volti di carabinieri e poliziotti, messi a protezione dell'improvvisato palco realizzato dai neofascisti, e mi sorpresi nel costatare che non avevano nulla di diverso dai volti dei tanti studenti e operai assiepati a ridosso dei loro scudi, anche se loro erano schierati in assetto antiguerriglia e incutevano un certo timore. Apparivano nervosi e tradivano impazienza. Considerai senza rancore che molti di loro indossavano la divisa per necessità, unica risorsa alle miserie che produceva la terra da cui, la quasi totalità di loro, provenivano.

   I giorni che avevano preceduto il comizio elettorale erano stati turbati in città da numerosi incidenti fra le avverse fazioni politiche. Infatti, le strade del centro storico erano state testimoni di dure battaglie. La città era in ebollizione. Operai e studenti avevano tenuto assemblee all'Università e nei circoli dei dopolavoro, specie nell'Oltretorrente. Nei discorsi della gente teneva banco un unico argomento: la politica.
   Il sindaco si era rifiutato di mettere a disposizione dei rappresentanti del Movimento Sociale il balcone del Palazzo del Governatore. Infatti, era lì che prendevano posto i leader politici per parlare alla gente che affollava Piazza Garibaldi durante i comizi elettorali.
   In città non si era mai visto uno schieramento di poliziotti e carabinieri così numeroso in città come nei giorni che precedettero la manifestazione neofascista. Quando ebbero inizio i primi tafferugli io e Elena c'eravamo appena allontanati dal cordone di poliziotti che impediva l’accesso alla piazza.
   All'improvviso una grossa automobile nera, la stessa che i militanti del Movimento Sociale si proponevano di utilizzare come palco per il comizio, abbandonata la piazza, sbucò da Via Garibaldi e imboccò Via Mazzini. L'automezzo arrestò la corsa bloccando le ruote al centro della strada all'altezza dei negozi di abbigliamento della ditta Marus.
   Dall'autovettura sbucarono alcuni provocatori fascisti. Erano armati di mazze e muniti di casco da motociclista sul capo. Si disposero a cerchio attorno al veicolo con il guidatore trattenutosi al volante con il motore acceso.
   Per nulla intimoriti dalla massa di gente che li assediava incominciarono a roteare nell'aria le mazze alla cui sommità era appesa una catena con grosse palle di ferro broccate.
   Elena, impaurita, mi trascinò al riparo dietro una delle colonne del porticato che faceva da copertura ai marciapiedi di entrambi i lati della strada. Un anziano, al nostro fianco, tolse le scarpe dai piedi e le lanciò tutt'e due in direzione dei fascisti che facevano corona attorno alla grossa autovettura con cui erano giunti sul posto.
   Tutt'a un tratto si udì un triplice squillo di tromba. I poliziotti caricarono la folla di gente assiepata agli ingressi della piazza. I lacrimogeni sommersero la strada di dense nubi di fumo. L'aria si fece irrespirabile. Scioccata da quello che stava succedendo Elena si aggrappò a me. Serrai una mano intorno al suo braccio e la incitai a scappare. Lo stesso fecero le persone che affollavano la piazza e le vie circostanti dandosi alla fuga. I celerini si gettarono a capofitto a inseguire i manifestanti colpendoli con manganelli e il calcio dei fucili.
   Via Mazzini, in prossimità dei grandi magazzini Upim e Coin, era colma di persone che fuggivano da ogni parte mischiate al fumo dei lacrimogeni. Gli occhi presero a lacrimarmi a causa delle sostanze irritati sparse dai fumi. Zigzagando fra la folla ci spostammo in direzione del Ponte di Mezzo. Elena indossava dei sandali con sottili strisce di cuoio che ne rallentavano i movimenti durante la corsa. Nella fuga incespicò un paio di volte e cadde a terra, ma ogni volta si rialzò prontamente. All'altezza di Via Oberdan alcuni manifestanti improvvisarono una barricata mettendo di traverso un paio di autovetture. Armati di cubetti di porfido, divelti dalla pavimentazione stradale, cominciarono a lanciarli contro i celerini.
   Dopo una prima carica gli agenti di polizia si ritirarono. Alle loro spalle, nelle retrovie, altri poliziotti seguitarono a sparare candelotti lacrimogeni nella direzione dei manifestanti.
   - Andiamocene. Ho paura. - mi implorò Elena.
   - Sì, andiamo via. - la rassicurai.
   Era impaurita. Il viso, sgomento, esibiva per intero la bellezza dei suoi sedici anni. Quando i poliziotti tornarono alla carica la maggioranza dei manifestanti abbandonò le barricate e si sparpagliò in tutte le direzioni cercando riparo dai tafferugli.
   - Vieni infiliamoci dentro quel portone. - urlai indicando l'ingresso di un palazzo settecentesco.
   Elena zoppicava a una caviglia per una botta che si era procurata nella fuga. Mi seguì dappresso, fiduciosa, senza lamentarsi per il dolore che le procurava la menomazione. Il portone era socchiuso. Ci ficcammo dentro e arrestammo la corsa davanti a un cancello che conduceva ai piani superiori.
   Le grida e il rumore di spari si fecero sempre più vicini. Serrai il portone alle nostre spalle e accostai la schiena a una parete. Elena mi fu addosso e si strinse forte a me.
   L'ambiente era buio. Una debole luce filtrava dal cavedio della scalinata. Faticai non poco a adattarmi all'oscurità del luogo. Sulla pelle avevo il peso dell'esile corpo di Elena, ne percepivo i tremori della carne e il respiro affannoso sulle mie guance.
   - Hai paura? - chiesi.
   - Senti qui.
   Mi prese la mano e la condusse al petto.
   - Ho il batticuore.
   Percepii il pulsare accelerato del battito cardiaco, ma soprattutto la forma del seno che cingevo per intero nella mano.
   - Stringimi forte. - mi sussurrò all'orecchio.
   Accostai le braccia attorno ai suoi fianchi e con un certo timore l'attirai a me. Ero turbato. Lo era anche lei, ma in modo diverso dal mio. Accostò le labbra sul mio collo e cominciò a succhiarmi la pelle con dei piccoli morsi. Brividi di piacere colmarono l'ansia del mio corpo. Rimasi sbalordito dal contegno impudico di Elena.
   L'avevo sempre considerata una compagna di lotta e nulla più. Non avevo mai pensato a lei come a una ragazza con cui imbastire una storia. E poi ero vergine. Le ragazze mi piacevano, ma le consideravo delle grandi rotture. L'atteggiamento schivo che mostravo nei loro confronti traeva origine dalla mia profonda timidezza, cosa che  mi faceva apparire ai loro occhi come un tipo altezzoso.
   Le labbra di Elena erano bollenti. In quei momenti considerai persino che fosse febbricitante. Si appiccicò alla mia bocca e premette le labbra sulle mie. Contraccambiai il bacio in maniera goffa. Era la prima volta che baciavo una ragazza e mi sentivo impacciato. Seguitai a premere le labbra sulle sue fino a farmi male ricalcando in qualche modo le orme di Humphrey Bogart e Eddie Costantine, star del cinema che in tante occasioni avevo visto baciare famose attrici sugli schermi dei cinematografi.
   Il cazzo prese a dolermi. Provavo una sorta di eccitazione del tutto simile a quella che ero solito provare toccandomi prima di spararmi una sega. Elena cominciò a strusciarsi con l'addome sul mio corpo. Accostai le mani al suo viso e le accarezzai le guance delicatamente.
   Le forme anatomiche del corpo di Elena erano graziose. Non era alta di statura. Vestiva in modo sbarazzino e teneva i capelli raccolti all'indietro a coda di cavallo. Rare volte l'avevo vista col viso truccato. L'impressione che mi ero fatto della sua persona era di una ragazza acqua e sapone.
   Continuammo a baciarci a lungo, scambiandoci un'infinità di carezze, fintanto che, fattasi più audace, mi accarezzò i genitali. Avevo il respiro fermo in gola e il cuore che pulsava come un mantice. Fu lesta a slacciarmi la cinghia dei pantaloni e abbassarmeli. Lasciai che mi masturbasse intimidito dalla sua intraprendenza. Eccitato da quei toccamenti le spinsi il capo verso il basso. Lei s’inginocchiò ai miei piedi e s’impadronì per intero del cazzo che cacciò nella bocca. Venni quasi subito e me ne vergognai.
   - Andiamo a vedere cosa succede fuori. - dissi separandomi dal suo corpo.
   - Ma no, dai, restiamo qui, - ribatté carezzandomi i capelli attorno la nuca.
   Mi divincolai dall'abbraccio, mi allacciai i pantaloni e aprii uno spiraglio nel portone. La strada appariva deserta. Le ombre della sera avevano fatto capolino sulla città.
   - Vieni, andiamo via da qua. - dissi trascinandola per la mano fino a raggiungere la strada.
   - Ma no, dai, fuori c'è ancora pericolo. Aspettiamo. - si lamentò.
   - Non credo, dai, andiamo via.
   I botti dei lacrimogeni seguitavano a echeggiare in lontananza. Dinanzi al Liceo Musicale, in Via del Conservatorio, risalimmo la banchina e ci ritrovammo a poca distanza dal ponte Caprazucca.
   Prima di separarci scambiammo un ultimo bacio. Rimasi a guardarla mentre si allontanava. Affrettò il passo girando più volte il capo nella mia direzione. Prima che scomparisse definitivamente alla mia vista, inghiottita dal buio delle tenebre, mi girai indietro e tornai sui luoghi degli scontri.




OMBRETTA
 
    Seduto dinanzi alla scrivania fissavo lo schermo del computer. Ero lì da una decina di minuti senza riuscire a scrivere una sola parola della lettera che dovevo scrivere. Nella scrivania accanto alla mia Ombretta tamburellava nervosamente le dita sulla tastiera concentrata nel portare a termine un compito che le avevo affidato.
   La scossa tellurica arrivò d'improvviso. Il pavimento cominciò a sussultare e vibrare tutto. Le pareti della stanza presero a vacillare. Le forti vibrazioni squassarono violentemente l'edificio da pianterreno fino all'ultimo dei sette piani.
   - Il terremoto! Il terremoto! - urlò Ombretta.
   Dagli scaffali sistemati contro le pareti, sbatacchiati dalle insistenti vibrazioni, precipitarono sul pavimento molti oggetti. Alcune crepe presero forma nei muri da cui si staccarono dei calcinacci. I due lampadari appesi al soffitto cominciarono a muoversi danzando per aria ognuno per proprio conto. Ombretta si alzò dalla sedia e corse verso me.
   - Lorenzo! Lorenzo!
   Lo sballottamento dell'edificio pareva non dovesse mai terminare. Trascinai Ombretta sotto l'architrave della porta del bagno e ne arrestai la fuga. Era impaurita e tremava tutta. Intrecciò le braccia intorno al mio collo e si incatenò a me. La scossa tellurica esaurì la sua forza devastatrice nel volgere di alcuni interminabili secondi. Quando tornò la calma e il pavimento cessò di sussultare Ombretta non si scostò. Rimase aggrappata al mio corpo cingendomi le braccia con maggiore forza.
   Le tette erano in collisione col mio petto. Ne percepivo i capezzoli sulla pelle. Erano turgidi e molto sviluppati. Mi guardai d'intorno. L'ufficio era a tutto soqquadro, mentre il pavimento appariva coperto di calcinacci e oggetti di ogni genere.
   Rassicurata dalla mia presenza Ombretta non pareva intenzionata a sciogliersi dall'abbraccio. Alzò il capo e mi ritrovai a guardarla negli occhi. Esitai prima di prendere una qualsiasi iniziativa. La condizione in cui c'eravamo venuti a trovare nostro malgrado era troppo ghiotta per lasciarmela sfuggire. Approfittai della sua debolezza, posai le labbra sulle sue, e la baciai. Un atto inconsulto il mio che avrebbe potuto mandare in rovina la nostra amicizia. 
   Lei era single. Io sposato. Lei aveva 22 anni. Io dieci di più.
   In diverse occasioni mi era capitato di apostrofarla con apprezzamenti lusinghieri. Non che fosse bella, ma sensuale lo era per davvero. Era già accaduto che i nostri corpi venissero in collisione, ma non in quel modo. Toccamenti, magari non del tutto intenzionali, c'erano stati e mi avevano procurato parecchio turbamento.
   Mentre la baciavo avvertii il tremore del suo corpo. Aveva la pelle d'oca per lo spavento e ciò me la rendeva ancora più desiderabile. Mi comportai come uno squilibrato. Invece di fuggire giù per le scale, come stavano facendo i colleghi degli altri uffici, trascinai Ombretta nella toilette. Lei, impaurita dalla scossa, si lasciò rimorchiare senza opporre la minima resistenza. Avevo una voglia matta di scoparla e non volevo perdere l'occasione per riuscire a farlo. Accostai la porta del bagno alle mie spalle. Serrai il chiavistello e mi girai verso di lei.
   Ombretta si trovò con la schiena addossata alle mattonelle della parete. Cominciai a baciarla sul collo, dopodiché appoggiai le mani sulla camicetta sbottonata ed entrai a contatto con la pelle.
   Le tette erano protette dall'esile tessuto del reggiseno. Quando strinsi fra le dita i capezzoli Ombretta trasalì. Ero in uno stato confusionale, respiravo con affanno, e lei ansimava. Penetrai la sua bocca con la lingua e cominciai a scoparla fra i denti muovendomi dentro e fuori le labbra. Contraccambiò il gesto facendomi dono a sua volta della lingua che trapassò le mie labbra. Una grande quantità di saliva fuoriuscì dalle nostre labbra per la smania di raggiungere al più presto l'orgasmo. 
   Godevo... oh, sì... che godevo.
   I nostri colleghi avrebbero potuto fare ritorno da un momento all'altro negli uffici. Considerai che avevamo poco tempo a disposizione, ragione per cui dovevo fare in fretta se volevo scoparla. E poi non volevo farmi trovare chiuso nella toilette insieme a lei quando gli altri impiegati avrebbero fatto ritorno negli uffici. Le infilai la mano sotto la cintura della gonna e raggiunsi il bordo delle mutandine. Posai le dita sui peli del pube e toccai le labbra della figa. Erano fradice di umore.
   Andai avanti a scoparla nella bocca con la lingua, poi la penetrai infilandole un paio di dita nella vagina. Il bocciolo del clitoride, piuttosto sviluppato, era turgido. Cominciai a carezzarlo delicatamente fintanto che il corpo d'Ombretta, sempre più eccitata, incominciò a scuotersi. Per nulla intimidita appoggiò la mano sulla patta dei miei pantaloni e mi tastò il cazzo. Guidai la mano sulla cerniera. Lei fu lesta ad abbassarla. Afferrò il cazzo nella mano e lo scarcerò dalle mutande. Proseguimmo a baciarci masturbandoci a vicenda.
   Il tocco della mano di Ombretta era leggero. Alternava movimenti rapidi ad altri lenti accrescendo il mio desiderio di scoparla.
   - Andiamo lì. - dissi indicando la tavola del water.
   Abbassai pantaloni e mutande, dopodiché andai a sedermi sopra l'asse di legno. Ombretta rimase in piedi di fronte a me. Si liberò delle mutandine di pizzo bianco e le abbassò senza fretta da sotto la gonna. Prima di mettersi cavalcioni sulle mie ginocchia levò anche la sottana. 
   Mi ritrovai con le tette all'altezza degli occhi. Liberai i bottoni della camicetta e gliela tolsi. Lei si diede da fare a slacciare il reggiseno che fece cadere in avanti. 
   Le tette erano di forma compatta. L'areola dei capezzoli, piuttosto larga, aveva l'estremità non troppo pronunciata. Accostai le mani sulle tette e le accarezzai ripetutamente godendo di quella paradisiaca fonte di piacere. 
   Ritrovarmi con le mammelle d'Ombretta fra le dita aveva del prodigioso. Stropicciai i capezzoli e lei fece lo stesso con i miei fino a farmi male.
   Dalle nostre bocche uscirono dei gemiti di piacere. Godevo! Cazzo se godevo! La sollecitazione delle dita sui miei capezzoli mi provocarono una lunga serie di fremiti in tutto il corpo. Chinai il capo e cominciai a succhiarle i capezzoli sbatacchiandoli coi denti fino a farla ubriacare di dolore. Lei afferrò il cazzo e lo avvicinò alla figa, poi lo tirò dentro spostandosi in avanti col bacino.
   Bagnata com'era non ebbi difficoltà nell'andare con la cappella sul fondo della cavità. Ombretta cominciò a dondolarsi con le anche mantenendo le braccia appoggiate sulle mie spalle, facendovi leva.
   Il culo oscillava sul cazzo in maniera oscena. Mentre mi scopava le accarezzai le tette spremendo con energia i capezzoli. Era madida di sudore. I lunghi capelli castani, resi appiccicosi dalla pelle umida nascondevano il viso alla mia vista.
   Mugolava di piacere a ogni penetrazione. Avevo persino l'impressione che congiungesse i muscoli della passera per accrescere il suo e il mio piacere. Attirai la sua bocca alla mia e la baciai ancora una volta. Accelerammo i movimenti dei corpi per raggiungere in fretta l'orgasmo.
   - Sì... sì... fammi venire. Fammi venire... - urlò fagocitandomi il cazzo.
   - Anch'io lo voglio... anch'io. - ribattei.
   - Uhm... sì... sì... - continuò.
   Raggiunse per prima lei l'acme del piacere. Lo avvertii nel momento in cui il suo pube fu scosso da violente contrazioni. Tremò in tutto il corpo e cominciò a gridare:
   - Vengo... vengoo... vengooo.
   Riversò tutta la forza che aveva in corpo nelle sue braccia che strinse con forza attorno il mio collo. Cominciai ad avere delle forti contrazioni al culo. Accelerai il movimento del cazzo e raggiunsi l'orgasmo. A fatica riuscii a estrarre il cazzo dalla figa prima di venire. 
   Buttai fuori una grande quantità di sperma riversandoglielo sull'addome impiastricciandoci entrambi. Restammo impigliati nelle nostre braccia per lungo tempo godendo dei reciproci tremori dei corpi. Poco dopo ci ritrovammo in strada con i nostri colleghi di lavoro che non avevano fatto ritorno negli uffici.



IL NERO

    Io e Rita dovevamo partire dall'aeroporto di Fiumicino alle 20.30 con destinazione Cuba, invece l'aereo si staccò dal suolo soltanto alle 02,55. Il motivo del ritardo, circa 6 ore, fu attribuito dai funzionari della compagnia aerea a una segnalazione di guasto a uno dei motori del Boeing 767 su cui avevamo preso posto. Al momento del definitivo decollo dell'apparecchio non tutti i passeggeri presero posto sul medesimo aereo insieme a noi. Molti preferirono rinunciare al viaggio e tornarono a casa per la paura.
   Le operazioni d'imbarco si erano concluse regolarmente alle 19.30 senza eccessivi intoppi. Alle 20.35 io e Rita eravamo seduti ai nostri posti, già con le cinture allacciate, pronti al decollo. Solo allora il comandante informò i passeggeri che saremmo partiti con un po' di ritardo.
   Intorno alle 21.30, dopo un'ora di attesa, l'aereo incominciò a muoversi. Ma dopo avere percorso un breve tratto sulla pista di rullaggio, prossima a quella di decollo, l'aereo fece ritorno all'aerostazione. Le hostess c'invitarono a scendere a terra. Io e Rita ci ritrovammo, insieme agli altri passeggeri, caricati sul bus e accompagnati in una delle sale d'aspetto dell'aeroporto in attesa che il guasto fosse riparato.

   Il Boeing 767 su cui prendemmo di nuovo posto, un paio di ore più tardi, era un velivolo di recente costruzione. Mia moglie prese possesso del sedile a ridosso del finestrino. Io nel mezzo fra lei e un tizio dalla pelle nera che occupò il sedile contiguo al corridoio.
   Poco dopo il decollo le hostess distribuirono delle bevande. A chi ne fece richiesta consegnarono una coperta per la notte. Rita si accucciò col capo addossato alla parete della fusoliera dell'aereo. Stanco e assonnato reclinai il sedile all'indietro, dopodiché srotolati il plaid e lo distesi sull'addome fino a coprire le ginocchia. L'uomo che occupava il sedile accanto a me fece altrettanto.
   Il Boeing, dopo avere preso quota, s'inoltrò nel buio delle tenebre, lasciandosi alle spalle le difficoltà che avevano ritardato il decollo. Dopo essermi appisolato fui svegliato dalle turbolenze prodotte dai frequenti vuoti d'aria che scaraventavano di continuo l'aereo verso il basso. 
   Tutt'a un tratto le luci di emergenza si accesero sopra la testa di ognuno dei passeggeri. Dagli altoparlanti uscì la voce del comandante dell'aereo. In perfetta lingua inglese invitò i passeggeri ad agganciare le cinture di sicurezza. 
   Viaggiare in aereo mi ha sempre messo addosso una grande paura. Quella notte le condizioni atmosferiche erano pessime. Mantenevo le palpebre degli occhi socchiuse e le mani madide di sudore attaccate ai bracciali del seggiolino. Il cuore mi pulsava celermente e avevo una dannata paura. Mia moglie, invece, dormiva un sonno tranquillo per nulla infastidita dalle turbolenze.
   Un movimento radicale della direzione del velivolo mi fece sussultare sul sedile lasciandomi per qualche istante senza fiato. Tutt'a un tratto avvertii il peso di una mano sopra un ginocchio. Sul momento non feci caso al gesto attribuendolo alla casualità, perlomeno fino a quando le dita scesero all'interno della coscia. Allora tutto mi fu chiaro.
   I vuoti d'aria si susseguirono. Avevo il cuore in gola e una mano che non era la mia appoggiata sul cazzo. Il compagno di viaggio seduto accanto me si fece più ardito e cominciò a sbottonarmi la patta dei pantaloni. Ancora una volta non mi ribellai e lo lasciai fare. Ero eccitato per ciò che stava accadendomi e non sapevo o volevo ribellarmi, anche se avrei potuto farlo. Sarebbe bastato che allontanassi la mano e tutto sarebbe finito, ma non la scostai. Lasciai che s'impadronisse del mio cazzo fagocitandolo nella mano. L'uomo si adoperò a estrarlo incontrando non poche difficoltà. L'avevo duro, ma duro duro. Lo era diventato in pochi istanti dopo che aveva cominciato ad accarezzarmi l'interno della coscia. 
   Mi tremavano le gambe per l'eccitazione. Ero spaventato e confuso dai turbamenti che produceva su di me la mano del mio vicino di poltrona.
   I continui sconquassi, provocati dalle vibrazioni dell'armatura dell'aereo, producevano un fracasso infernale. L'impressione che ne ricevetti fu che l'aereo avrebbe potuto spaccarsi in più pezzi da un momento all'altro. Stavo subendo le attenzioni di un anonimo compagno di viaggio e ne provavo piacere. Lasciai che seguitasse a toccarmi incapace di reagire all'insolente sequela di carezze che esercitava sulla cappella.
   Mi lusingava con leggeri tocchi delle dita e mi faceva godere come raramente mi è accaduto masturbandomi. Avevo l'impressione di eiaculare da un momento all'altro, ma quando stava per accadere il mio vicino di poltrona rallentava l'azione della mano facendo regredire l'istante in cui avrei sborrato. Mi compiacevo per le attenzioni che stavo subendo e non vedevo l'ora di venire.
   Il movimento della mano sul cazzo si fece insistente. Godevo nell'essere masturbato e non m'importava, affatto, che fosse un uomo a farlo. Provavo vergogna e nello stesso tempo trovavo eccitante questa mia degradazione. Sborrai fra le sue dita espellendo una grande quantità di sperma. Lui continuò a carezzarmi il cazzo facendomi uscire fino all'ultima goccia dall'uretra.
   La mano dell'uomo si eclissò lasciandomi pantaloni e mutande impiastricciate di sperma. Rimasi con gli occhi socchiusi per lungo tempo stemperando l'eccitazione che mi bruciava dentro. Utilizzai il plaid per asciugarmi il cazzo senza farmi scorgere da Rita, poi mi addormentai.
 


EPILOGO
 
   Le tre storie hanno parecchio in comune. Forse sono anche vere. Lorenzo è un po' come Antoine Doinel, protagonista de: "I quattrocento colpi" e di molti altri film di Françoise Truffaut. Il fermo fotogramma che conclude la corsa di Antoine sulla spiaggia e il film, ha lasciato una traccia profonda dentro di me. Anch'io come lui sto fuggendo da qualcosa, forse da me stesso.

 

 

 
 

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