|
OLTRETORRENTE
(trilogia)
di
Farfallina
AVVERTENZA
Il
linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel
racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto
possa offenderti sei invitato a uscire.
ELENA
Dall'altra
parte del Ponte Caprazucca riuscivo a
distinguere le sagome medievali delle
case dell'Oltretorrente. Scambiai un
ultimo bacio con Elena, dopodiché
rimasi ad ammirare le movenze del suo
fondoschiena, malamente illuminato dalle
luci dei lampioni, mentre
camminava sulla banchina del ponte
allontanandosi da me. Girò un paio di
volte il capo nella mia direzione, ma
non accennò a un gesto né pronunciò una
sola parola, infine scomparve alla mia
vista inghiottita dal buio delle
tenebre.
Avevamo abbandonato per
tempo Piazza Garibaldi poco prima che i
celerini, intervenuti in gran numero a
presidiare la piazza, caricassero la
folla di gente accorsa lì per
boicottare il comizio di Giorgio
Almirante organizzato dal Movimento
Sociale, sommergendo di fischi e urla la
precaria tribuna messa su alla bene e
meglio da cui il leader politico avrebbe
dovuto parlare.
Il cordone di poliziotti,
in tenuta antisommossa,
era sistemato agli ingressi della
piazza a difesa del palco da cui i
neofascisti erano intenzionati a
effettuare il comizio
elettorale, del tutto ignari che
nottetempo alcuni dipendenti
dell’azienda municipalizzata del gas,
dopo essersi introdotti nei cunicoli
delle fogne, avevano sistemato
alcune bombole di un composto chimico,
maleodorante, in prossimità dei
pozzetti per il deflusso delle acque
stradali, nel presunto luogo del
comizio, aprendo i rubinetti delle
bombole al momento opportuno facendo
diventare l’aria della piazza pressoché
irrespirabile.
La puzzolente miscela
gassosa, di per sé innocua, era servita
a disperdere l'adunata dei militanti del
Movimento Sociale raccolti attorno
all’onorevole Giorgio Almirante,
giunto appositamente da Roma per
effettuare il comizio, ma subito dopo la
fuga di gas era scoppiata,
violenta e improvvisa, la carica della
Celere per disperdere la folla di
antifascisti accorsi nella piazza.
Elena e io eravamo arrivati
in Piazza Garibaldi in netto anticipo
rispetto l’ora d’inizio del
comizio. Fare lotta politica
manifestando i nostri ideali, confusi
fra i militanti della sinistra, ci
rendeva fieri di noi stessi.
Il tentativo dei
neofascisti di effettuare il comizio
nella piazza dove in passato erano stati
trucidati alcuni partigiani per
rappresaglia dai nazifascismi, era una
chiara provocazione per la città di
Parma medaglia d'oro della Resistenza.
A scuola, con i compagni di
classe del liceo Romagnosi, avevamo
discusso a fondo se aderire o meno
alla manifestazione di protesta indetta
dal Movimento Studentesco. Durante un
acceso scambio di vedute avevamo votato
compatti per l'adesione. Ma nel punto di
ritrovo, fissato con i compagni di
classe, davanti al Cinema Orfeo,
c'eravamo solo Elena e io. Gli altri
erano rimasti tutti a casa.
Le forze di polizia avevano
istituito un muro umano invalicabile
tutt’attorno alla piazza dove avrebbe
dovuto svolgersi il comizio
impedendo, di fatto, l'accesso a curiosi
e manifestanti di sinistra.
Celerini e carabinieri, in
tenuta antisommossa, erano provvisti di
scudi, elmetto, fucili, manganelli e
quant'altro sarebbe servito a offendere.
Manipoli di agenti di polizia,
raggruppati nelle vie adiacenti Piazza
Garibaldi, erano pronti a intervenire in
caso di necessità. Altri agenti, saldi
sulle jeep e nelle autoblinda
parcheggiate nella vicina Piazza della
Pilotta, erano in attesa di dare
supporto ai compagni d'armi.
Mi persi a guardare i volti
di carabinieri e poliziotti, messi a
protezione dell'improvvisato palco
realizzato dai neofascisti, e mi
sorpresi nel costatare che non avevano
nulla di diverso dai volti dei tanti
studenti e operai assiepati a ridosso
dei loro scudi, anche se loro erano
schierati in assetto antiguerriglia e
incutevano un certo timore. Apparivano
nervosi e tradivano impazienza.
Considerai senza rancore che molti di
loro indossavano la divisa per necessità,
unica risorsa alle miserie che produceva
la terra da cui, la quasi totalità di
loro, provenivano.
I giorni che avevano
preceduto il comizio elettorale erano
stati turbati in città da numerosi
incidenti fra le avverse fazioni
politiche. Infatti, le strade del centro
storico erano state testimoni di dure
battaglie. La città era in ebollizione.
Operai e studenti avevano tenuto
assemblee all'Università e nei circoli
dei dopolavoro, specie nell'Oltretorrente.
Nei discorsi della gente teneva banco un
unico argomento: la politica.
Il sindaco si era rifiutato
di mettere a disposizione dei
rappresentanti del Movimento Sociale il
balcone del Palazzo del Governatore.
Infatti, era lì che prendevano posto i
leader politici per parlare alla gente
che affollava Piazza Garibaldi durante i
comizi elettorali.
In città non si era mai
visto uno schieramento di poliziotti e
carabinieri così numeroso in città come nei
giorni che precedettero la
manifestazione neofascista. Quando
ebbero inizio i primi tafferugli io e
Elena c'eravamo appena allontanati dal
cordone di poliziotti che impediva l’accesso alla piazza.
All'improvviso una grossa
automobile nera, la stessa che i
militanti del Movimento Sociale si
proponevano di utilizzare come palco per
il comizio, abbandonata la piazza, sbucò
da Via Garibaldi e imboccò Via Mazzini.
L'automezzo arrestò la corsa bloccando
le ruote al centro della strada
all'altezza dei negozi di abbigliamento della ditta Marus.
Dall'autovettura sbucarono alcuni provocatori fascisti. Erano
armati di mazze e muniti di casco da
motociclista sul capo. Si disposero a
cerchio attorno al veicolo con il
guidatore trattenutosi al volante con il
motore acceso.
Per nulla intimoriti dalla
massa di gente che li assediava
incominciarono a roteare nell'aria le
mazze alla cui sommità era appesa una
catena con grosse palle di ferro
broccate.
Elena, impaurita, mi
trascinò al riparo dietro una delle
colonne del porticato che faceva da
copertura ai marciapiedi di entrambi i
lati della strada. Un anziano, al nostro
fianco, tolse le scarpe dai piedi e le
lanciò tutt'e due in direzione dei
fascisti che facevano corona attorno
alla grossa autovettura con cui erano
giunti sul posto.
Tutt'a un tratto si udì un
triplice squillo di tromba. I poliziotti
caricarono la folla di gente assiepata
agli ingressi della piazza. I lacrimogeni
sommersero la strada di dense nubi di
fumo. L'aria si fece irrespirabile.
Scioccata da quello che stava succedendo
Elena si aggrappò a me. Serrai una mano
intorno al suo braccio e la incitai a
scappare. Lo stesso fecero le
persone che affollavano la piazza e le
vie circostanti dandosi alla fuga. I
celerini si gettarono a capofitto a
inseguire i manifestanti colpendoli con
manganelli e il calcio dei fucili.
Via Mazzini, in prossimità
dei grandi magazzini Upim e Coin, era
colma di persone che fuggivano da ogni
parte mischiate al fumo dei lacrimogeni.
Gli occhi presero a lacrimarmi a causa
delle sostanze irritati sparse dai fumi.
Zigzagando fra la folla ci spostammo in
direzione del Ponte di Mezzo. Elena
indossava dei sandali con sottili
strisce di cuoio che ne rallentavano i
movimenti durante la corsa. Nella fuga
incespicò un paio di volte e cadde a
terra, ma ogni volta si rialzò
prontamente. All'altezza di Via Oberdan
alcuni manifestanti improvvisarono una
barricata mettendo di traverso un paio
di autovetture. Armati di cubetti di
porfido, divelti dalla pavimentazione
stradale, cominciarono a lanciarli
contro i celerini.
Dopo una prima carica gli
agenti di polizia si ritirarono. Alle
loro spalle, nelle retrovie, altri
poliziotti seguitarono a sparare
candelotti lacrimogeni nella direzione
dei manifestanti.
- Andiamocene. Ho paura. -
mi implorò Elena.
- Sì, andiamo via. - la
rassicurai.
Era impaurita. Il viso,
sgomento, esibiva per intero la bellezza
dei suoi sedici anni. Quando i
poliziotti tornarono alla carica la
maggioranza dei manifestanti abbandonò
le barricate e si sparpagliò in tutte
le direzioni cercando riparo dai
tafferugli.
- Vieni infiliamoci dentro
quel portone. - urlai indicando
l'ingresso di un palazzo settecentesco.
Elena zoppicava a una
caviglia per una botta che si era
procurata nella fuga. Mi seguì
dappresso, fiduciosa, senza lamentarsi
per il dolore che le procurava la
menomazione. Il portone era socchiuso.
Ci ficcammo dentro e arrestammo la corsa
davanti a un cancello che conduceva ai
piani superiori.
Le grida e il rumore di
spari si fecero sempre più vicini.
Serrai il portone alle nostre spalle e
accostai la schiena a una parete. Elena
mi fu addosso e si strinse forte a me.
L'ambiente era buio. Una
debole luce filtrava dal cavedio della
scalinata. Faticai non poco a adattarmi
all'oscurità del luogo. Sulla pelle
avevo il peso dell'esile corpo di Elena,
ne percepivo i tremori della carne e il
respiro affannoso sulle mie guance.
- Hai paura? - chiesi.
- Senti qui.
Mi prese la mano e la
condusse al petto.
- Ho il batticuore.
Percepii il pulsare
accelerato del battito cardiaco, ma
soprattutto la forma del seno che
cingevo per intero nella mano.
- Stringimi forte. - mi
sussurrò all'orecchio.
Accostai le braccia attorno
ai suoi fianchi e con un certo timore
l'attirai a me. Ero turbato. Lo era
anche lei, ma in modo diverso dal mio.
Accostò le labbra sul mio collo e
cominciò a succhiarmi la pelle con dei
piccoli morsi. Brividi di piacere
colmarono l'ansia del mio corpo. Rimasi
sbalordito dal contegno impudico di
Elena.
L'avevo sempre considerata
una compagna di lotta e nulla più. Non
avevo mai pensato a lei come a una
ragazza con cui imbastire una storia. E
poi ero vergine. Le ragazze mi
piacevano, ma le consideravo delle
grandi rotture. L'atteggiamento schivo
che mostravo nei loro confronti traeva
origine dalla mia profonda timidezza,
cosa che
mi faceva apparire ai loro occhi
come un tipo altezzoso.
Le labbra di Elena erano
bollenti. In quei momenti considerai
persino che fosse febbricitante. Si
appiccicò alla mia bocca e premette le
labbra sulle mie. Contraccambiai il
bacio in maniera goffa. Era la prima
volta che baciavo una ragazza e mi
sentivo impacciato. Seguitai a premere
le labbra sulle sue fino a farmi male
ricalcando in qualche modo le orme di
Humphrey Bogart e Eddie Costantine, star
del cinema che in tante occasioni avevo
visto baciare famose attrici sugli
schermi dei cinematografi.
Il cazzo prese a dolermi.
Provavo una sorta di eccitazione del
tutto simile a quella che ero solito
provare toccandomi prima di spararmi una
sega. Elena cominciò a strusciarsi con
l'addome sul mio corpo. Accostai le mani
al suo viso e le accarezzai le guance
delicatamente.
Le forme anatomiche del
corpo di Elena erano graziose. Non era
alta di statura. Vestiva in modo
sbarazzino e teneva i capelli raccolti
all'indietro a coda di cavallo. Rare
volte l'avevo vista col viso truccato.
L'impressione che mi ero fatto della sua
persona era di una ragazza acqua e
sapone.
Continuammo a baciarci a
lungo, scambiandoci un'infinità di
carezze, fintanto che, fattasi più
audace, mi accarezzò i genitali. Avevo
il respiro fermo in gola e il cuore che
pulsava come un mantice. Fu lesta a
slacciarmi la cinghia dei pantaloni e
abbassarmeli. Lasciai che mi masturbasse
intimidito dalla sua intraprendenza.
Eccitato da quei toccamenti le spinsi il
capo verso il basso. Lei s’inginocchiò
ai miei piedi e s’impadronì per
intero del cazzo che cacciò nella
bocca. Venni quasi subito e me ne
vergognai.
- Andiamo a vedere cosa
succede fuori. - dissi separandomi dal
suo corpo.
- Ma no, dai, restiamo qui,
- ribatté carezzandomi i capelli
attorno la nuca.
Mi divincolai
dall'abbraccio, mi allacciai i pantaloni
e aprii uno spiraglio nel portone. La
strada appariva deserta. Le ombre della
sera avevano fatto capolino sulla città.
- Vieni, andiamo via da
qua. - dissi trascinandola per la mano
fino a raggiungere la strada.
- Ma no, dai, fuori c'è
ancora pericolo. Aspettiamo. - si lamentò.
- Non credo, dai, andiamo
via.
I botti dei lacrimogeni
seguitavano a echeggiare in lontananza.
Dinanzi al Liceo Musicale, in Via del
Conservatorio, risalimmo la banchina e
ci ritrovammo a poca distanza dal ponte
Caprazucca.
Prima di separarci
scambiammo un ultimo bacio. Rimasi a
guardarla mentre si allontanava. Affrettò
il passo girando più volte il capo
nella mia direzione. Prima che
scomparisse definitivamente alla mia
vista, inghiottita dal buio delle
tenebre, mi girai indietro e tornai sui
luoghi degli scontri.
OMBRETTA
Seduto dinanzi alla
scrivania fissavo lo schermo del
computer. Ero lì da una decina di
minuti senza riuscire a scrivere una
sola parola della lettera che dovevo
scrivere. Nella scrivania accanto alla
mia Ombretta tamburellava nervosamente
le dita sulla tastiera concentrata nel
portare a termine un compito che le
avevo affidato.
La scossa tellurica arrivò
d'improvviso. Il pavimento cominciò a
sussultare e vibrare tutto. Le pareti
della stanza presero a vacillare. Le
forti vibrazioni squassarono
violentemente l'edificio da pianterreno
fino all'ultimo dei sette piani.
- Il terremoto! Il
terremoto! - urlò Ombretta.
Dagli scaffali sistemati
contro le pareti, sbatacchiati dalle
insistenti vibrazioni, precipitarono sul
pavimento molti oggetti. Alcune crepe
presero forma nei muri da cui si
staccarono dei calcinacci. I due
lampadari appesi al soffitto
cominciarono a muoversi danzando per
aria ognuno per proprio conto.
Ombretta si alzò dalla sedia e corse
verso me.
- Lorenzo! Lorenzo!
Lo sballottamento
dell'edificio pareva non dovesse mai
terminare. Trascinai Ombretta sotto
l'architrave della porta del bagno e ne arrestai la fuga. Era impaurita e
tremava tutta. Intrecciò le braccia
intorno al mio collo e si incatenò a
me. La scossa tellurica esaurì la sua
forza devastatrice nel volgere di alcuni
interminabili secondi. Quando tornò la
calma e il pavimento cessò di
sussultare Ombretta non si scostò.
Rimase aggrappata al mio corpo
cingendomi le braccia con maggiore forza.
Le tette erano in
collisione col mio petto. Ne percepivo i
capezzoli sulla pelle. Erano turgidi e
molto sviluppati. Mi guardai d'intorno.
L'ufficio era a tutto soqquadro, mentre
il pavimento appariva coperto di
calcinacci e oggetti di ogni genere.
Rassicurata dalla mia
presenza Ombretta non pareva
intenzionata a sciogliersi
dall'abbraccio. Alzò il capo e mi
ritrovai a guardarla negli occhi. Esitai
prima di prendere una qualsiasi
iniziativa. La condizione in cui
c'eravamo venuti a trovare nostro
malgrado era troppo ghiotta per
lasciarmela sfuggire. Approfittai della
sua debolezza, posai le labbra sulle
sue, e la baciai. Un atto inconsulto il
mio che avrebbe potuto mandare in rovina
la nostra amicizia.
Lei era single. Io sposato.
Lei aveva 22 anni. Io dieci di più.
In diverse occasioni mi era
capitato di apostrofarla con
apprezzamenti lusinghieri. Non che fosse
bella, ma sensuale lo era per davvero.
Era già accaduto che i nostri corpi
venissero in collisione, ma non in quel
modo. Toccamenti, magari non del tutto
intenzionali, c'erano stati e mi avevano
procurato parecchio turbamento.
Mentre la baciavo avvertii
il tremore del suo corpo. Aveva la pelle
d'oca per lo spavento e ciò me la
rendeva ancora più desiderabile. Mi
comportai come uno squilibrato. Invece
di fuggire giù per le scale, come stavano
facendo i colleghi degli altri uffici,
trascinai Ombretta nella toilette. Lei,
impaurita dalla scossa, si lasciò
rimorchiare senza opporre la minima
resistenza. Avevo una voglia matta di
scoparla e non volevo perdere
l'occasione per riuscire a farlo. Accostai la porta
del bagno alle mie spalle. Serrai il
chiavistello e mi girai verso di lei.
Ombretta si trovò con la
schiena addossata alle mattonelle della
parete. Cominciai a baciarla sul collo,
dopodiché appoggiai le mani sulla
camicetta sbottonata ed entrai a
contatto con la pelle.
Le tette erano protette
dall'esile tessuto del reggiseno. Quando
strinsi fra le dita i capezzoli Ombretta
trasalì. Ero in uno stato confusionale,
respiravo con affanno, e lei ansimava.
Penetrai la sua bocca con la lingua e
cominciai a scoparla fra i denti
muovendomi dentro e fuori le labbra.
Contraccambiò il gesto facendomi dono a
sua volta della lingua che trapassò le
mie labbra. Una grande quantità di
saliva fuoriuscì dalle nostre labbra
per la smania di raggiungere al più
presto l'orgasmo.
Godevo... oh, sì... che
godevo.
I nostri colleghi avrebbero
potuto fare ritorno da un momento
all'altro negli uffici. Considerai che
avevamo poco tempo a disposizione,
ragione per cui dovevo fare in fretta se
volevo scoparla. E poi non volevo farmi
trovare chiuso nella toilette insieme a
lei quando gli altri impiegati avrebbero
fatto ritorno negli uffici. Le infilai
la mano sotto la cintura della gonna e
raggiunsi il bordo delle mutandine.
Posai le dita sui peli del pube e toccai
le labbra della figa. Erano fradice di
umore.
Andai avanti a scoparla
nella bocca con la lingua, poi la
penetrai infilandole un paio di dita nella
vagina.
Il bocciolo del clitoride, piuttosto
sviluppato, era turgido. Cominciai a
carezzarlo delicatamente fintanto che il
corpo d'Ombretta, sempre più eccitata,
incominciò a scuotersi. Per nulla
intimidita appoggiò la mano sulla patta
dei miei pantaloni e mi tastò il cazzo.
Guidai la mano sulla cerniera. Lei fu
lesta ad abbassarla. Afferrò il cazzo
nella mano e lo scarcerò dalle mutande.
Proseguimmo a baciarci masturbandoci a
vicenda.
Il tocco della mano di
Ombretta era leggero. Alternava
movimenti rapidi ad altri lenti
accrescendo il mio desiderio di
scoparla.
- Andiamo lì. - dissi
indicando la tavola del water.
Abbassai pantaloni e
mutande, dopodiché andai a sedermi
sopra l'asse di legno. Ombretta rimase
in piedi di fronte a me. Si liberò
delle mutandine di pizzo bianco e le
abbassò senza fretta da sotto la gonna.
Prima di mettersi cavalcioni sulle mie
ginocchia levò anche la sottana.
Mi ritrovai con le tette
all'altezza degli occhi. Liberai i
bottoni della camicetta e gliela tolsi.
Lei si diede da fare a slacciare il
reggiseno che fece cadere in avanti.
Le tette erano di forma
compatta. L'areola dei capezzoli,
piuttosto larga, aveva l'estremità non
troppo pronunciata. Accostai le mani
sulle tette e le accarezzai
ripetutamente godendo di quella
paradisiaca fonte di piacere.
Ritrovarmi con le mammelle
d'Ombretta fra le dita aveva del
prodigioso. Stropicciai i capezzoli e
lei fece lo stesso con i miei fino a
farmi male.
Dalle nostre bocche
uscirono dei gemiti di piacere. Godevo!
Cazzo se godevo! La sollecitazione delle
dita sui miei capezzoli mi provocarono
una lunga serie di fremiti in tutto il
corpo. Chinai il capo e cominciai a
succhiarle i capezzoli sbatacchiandoli
coi denti fino a farla ubriacare di
dolore. Lei afferrò il cazzo e lo
avvicinò alla figa, poi lo tirò dentro
spostandosi in avanti col bacino.
Bagnata com'era non ebbi
difficoltà nell'andare con la cappella
sul fondo della cavità. Ombretta
cominciò a dondolarsi con le anche
mantenendo le braccia appoggiate sulle
mie spalle, facendovi leva.
Il culo oscillava sul cazzo
in maniera oscena. Mentre mi scopava le
accarezzai le tette spremendo con
energia i capezzoli. Era madida di
sudore. I lunghi capelli castani, resi
appiccicosi dalla pelle umida
nascondevano il viso alla mia vista.
Mugolava di piacere a ogni
penetrazione. Avevo persino
l'impressione che congiungesse i muscoli
della passera per accrescere il suo e il
mio piacere. Attirai la sua bocca alla
mia e la baciai ancora una volta.
Accelerammo i movimenti dei corpi per
raggiungere in fretta l'orgasmo.
- Sì... sì... fammi
venire. Fammi venire... - urlò
fagocitandomi il cazzo.
- Anch'io lo voglio...
anch'io. - ribattei.
- Uhm... sì... sì... -
continuò.
Raggiunse per prima lei
l'acme del piacere. Lo avvertii nel
momento in cui il suo pube fu scosso da
violente contrazioni. Tremò in tutto il
corpo e cominciò a gridare:
- Vengo... vengoo...
vengooo.
Riversò tutta la forza che
aveva in corpo nelle sue braccia che
strinse con forza attorno il mio collo.
Cominciai ad avere delle forti
contrazioni al culo. Accelerai il
movimento del cazzo e raggiunsi
l'orgasmo. A fatica riuscii a estrarre
il cazzo dalla figa prima di venire.
Buttai fuori una grande
quantità di sperma riversandoglielo
sull'addome impiastricciandoci entrambi.
Restammo impigliati nelle nostre braccia
per lungo tempo godendo dei reciproci
tremori dei corpi. Poco dopo ci
ritrovammo in strada con i nostri
colleghi di lavoro che non avevano fatto
ritorno negli uffici.
IL
NERO
Io e Rita dovevamo
partire dall'aeroporto di Fiumicino alle
20.30 con destinazione Cuba, invece
l'aereo si staccò dal suolo soltanto alle 02,55. Il motivo del ritardo, circa 6 ore, fu
attribuito dai funzionari della
compagnia aerea a una segnalazione di
guasto a uno dei motori del Boeing 767
su cui avevamo preso posto. Al momento
del definitivo decollo dell'apparecchio
non tutti i passeggeri presero posto sul medesimo
aereo insieme a noi. Molti preferirono
rinunciare al viaggio e tornarono a
casa per la paura.
Le operazioni d'imbarco si
erano concluse regolarmente alle 19.30
senza eccessivi intoppi. Alle 20.35 io e
Rita eravamo seduti ai nostri posti,
già con
le cinture allacciate, pronti al
decollo. Solo allora il comandante
informò i passeggeri che saremmo
partiti con un po' di ritardo.
Intorno alle 21.30, dopo
un'ora di attesa, l'aereo incominciò a muoversi. Ma dopo avere percorso un
breve tratto sulla pista di rullaggio,
prossima a quella di decollo, l'aereo
fece ritorno all'aerostazione. Le
hostess c'invitarono a scendere a terra.
Io e Rita ci ritrovammo, insieme agli
altri passeggeri, caricati sul bus e
accompagnati in una delle sale d'aspetto
dell'aeroporto in attesa che il guasto
fosse riparato.
Il Boeing 767 su cui
prendemmo di nuovo posto, un paio di ore
più tardi, era un velivolo di recente
costruzione. Mia moglie prese possesso
del sedile a ridosso del finestrino. Io
nel mezzo fra lei e un tizio dalla pelle
nera che occupò il sedile contiguo al
corridoio.
Poco dopo il decollo le
hostess distribuirono delle bevande. A chi ne fece richiesta
consegnarono una coperta per la notte.
Rita si accucciò col capo addossato
alla parete della fusoliera dell'aereo.
Stanco e assonnato reclinai il sedile
all'indietro, dopodiché srotolati il
plaid e lo distesi sull'addome fino a
coprire le ginocchia. L'uomo che
occupava il sedile accanto a me fece altrettanto.
Il Boeing, dopo avere preso
quota, s'inoltrò nel buio delle
tenebre, lasciandosi alle spalle le
difficoltà che avevano ritardato il
decollo. Dopo essermi appisolato fui
svegliato dalle turbolenze prodotte dai
frequenti vuoti d'aria che
scaraventavano di continuo l'aereo verso
il basso.
Tutt'a un tratto le luci di
emergenza si accesero sopra la testa di
ognuno dei passeggeri. Dagli
altoparlanti uscì la voce del
comandante dell'aereo. In perfetta
lingua inglese invitò i passeggeri ad
agganciare le cinture di sicurezza.
Viaggiare in aereo mi ha
sempre messo addosso una grande paura.
Quella notte le condizioni atmosferiche
erano pessime. Mantenevo le palpebre
degli occhi socchiuse e le mani madide
di sudore attaccate ai bracciali del
seggiolino. Il cuore mi pulsava
celermente e avevo una dannata paura.
Mia moglie, invece, dormiva un sonno
tranquillo per nulla infastidita dalle
turbolenze.
Un movimento radicale della
direzione del velivolo mi fece
sussultare sul sedile lasciandomi per
qualche istante senza fiato. Tutt'a un
tratto avvertii il peso di una mano
sopra un ginocchio. Sul momento non feci
caso al gesto attribuendolo alla
casualità, perlomeno fino a quando le
dita scesero all'interno della coscia.
Allora tutto mi fu chiaro.
I vuoti d'aria si
susseguirono. Avevo il cuore in gola e
una mano che non era la mia appoggiata
sul cazzo. Il compagno di viaggio seduto
accanto me si fece più ardito e cominciò
a sbottonarmi la patta dei pantaloni.
Ancora una volta non mi ribellai e lo
lasciai fare. Ero eccitato per ciò che
stava accadendomi e non sapevo o volevo
ribellarmi, anche se avrei potuto farlo.
Sarebbe bastato che allontanassi la mano
e tutto sarebbe finito, ma non la
scostai. Lasciai che s'impadronisse del
mio cazzo fagocitandolo nella mano.
L'uomo si adoperò a
estrarlo incontrando non poche difficoltà.
L'avevo duro, ma duro duro. Lo era
diventato in pochi istanti dopo che
aveva cominciato ad accarezzarmi
l'interno della coscia.
Mi tremavano le gambe per
l'eccitazione. Ero spaventato e confuso
dai turbamenti che produceva su di me la
mano del mio vicino di poltrona.
I continui sconquassi,
provocati dalle vibrazioni dell'armatura
dell'aereo, producevano un fracasso
infernale. L'impressione che ne
ricevetti fu che l'aereo avrebbe potuto
spaccarsi in più pezzi da un momento
all'altro. Stavo subendo le attenzioni
di un anonimo compagno di viaggio e ne
provavo piacere. Lasciai che seguitasse
a toccarmi incapace di reagire
all'insolente sequela di carezze che
esercitava sulla cappella.
Mi lusingava con leggeri
tocchi delle dita e mi faceva godere
come raramente mi è accaduto
masturbandomi. Avevo l'impressione di
eiaculare da un momento all'altro, ma
quando stava per accadere il mio vicino
di poltrona rallentava l'azione della
mano facendo regredire l'istante in cui
avrei sborrato. Mi compiacevo per le
attenzioni che stavo subendo e non
vedevo l'ora di venire.
Il movimento della mano sul
cazzo si fece insistente. Godevo
nell'essere masturbato e non
m'importava, affatto, che fosse un uomo
a farlo. Provavo vergogna e nello stesso
tempo trovavo eccitante questa mia
degradazione. Sborrai fra le sue dita
espellendo una grande quantità di
sperma. Lui continuò a carezzarmi il
cazzo facendomi uscire fino all'ultima
goccia dall'uretra.
La mano dell'uomo si eclissò
lasciandomi pantaloni e mutande
impiastricciate di sperma. Rimasi con
gli occhi socchiusi per lungo tempo
stemperando l'eccitazione che mi
bruciava dentro. Utilizzai il plaid per
asciugarmi il cazzo senza farmi scorgere
da Rita, poi mi addormentai.
EPILOGO
Le tre storie hanno
parecchio in comune. Forse sono anche
vere. Lorenzo è un po' come Antoine
Doinel, protagonista de: "I
quattrocento colpi" e di molti
altri film di Françoise Truffaut. Il
fermo fotogramma che conclude la corsa
di Antoine sulla spiaggia e il film, ha
lasciato una traccia profonda dentro di
me. Anch'io come lui sto fuggendo da
qualcosa, forse da me stesso.
|
|
|