8  MARZO
di Farfallina

AVVERTENZA

Il linguaggio di sesso esplicito utilizzato nel racconto è indicato per un pubblico adulto.
Se sei minorenne o se pensi che il contenuto possa offenderti sei invitato a
uscire.

 

  
 
   
Accompagnata dalla figlia Elena si era presentata all'accettazione del Pronto Soccorso. Un lancinante dolore al torace, associato a una insistente difficoltà del respiro, l'aveva convinta, suo malgrado, a ricorrere alle cure dei sanitari.
     Le radiografie al torace avevano evidenziato l'infrazione a due coste. Scartata l'eventualità di un pneumotorace il medico del Pronto Soccorso aveva ritenuto necessario trattenerla in osservazione almeno per ventiquattrore nel reparto di Medicina D'urgenza, dopodiché se non fossero sorte complicanze l'avrebbe dimessa.
     Il dolore provocato dalle fratture costali l'avevano tenuta sveglia per tutta la notte, solo verso l'alba era riuscita a addormentarsi. Il breve periodo di riposo e gli effetti antalgici di un sedativo, praticatole per via intramuscolare, erano serviti a tranquillizzarla. A mezzogiorno era stata di nuovo visitata da un medico che, dopo averle consegnato la lettera di dimissioni, le aveva raccomandato un periodo di riposo. Aiutata dalla figlia, Raffaella, che per tutta la notte l'aveva vegliata, lasciò l'ospedale.

     Raffaella era una quattordicenne di carattere introverso che sapeva sbrogliarsela da sola in qualsiasi situazione. Perlomeno questa era l'opinione che si era fatta Elena della figlia, perlomeno prima che le sue certezze crollassero di fronte agli inquietanti accadimenti che le avevano guastato la vita.
    La ragazza vantava degli ottimi voti scolastici, infatti, era la prima della sua classe. La passione per la letteratura riempiva le sue giornate, in particolare prediligeva leggere le opere dei romanzieri francesi dell'ottocento. Stendhal, Flaubert, Zola erano i suoi autori preferiti.
     Diversamente dalle coetanee, abituate a trascorrere i pomeriggi al bar o per la strada a fare le smorfiose con i maschi, consumava il tempo libero fra le mura domestiche impegnata a studiare; raramente la si vedeva in compagnia con i maschi.

     Elena si era sposata all'età di sedici anni. Aveva conosciuto il marito nella piazzetta del paese dove tutti i pomeriggi era solita ritrovarsi con le amiche. Quattro mesi dopo il matrimonio riparatore aveva partorito una bellissima bambina a cui in comune accordo con il marito avevano messo il nome di Raffaella, come la Carrà. Probabilmente se fosse nato un maschio lo avrebbero chiamato Diego, come il bomber del Napoli Maradona.
    Il matrimonio si era rivelato un fallimento. Dopo un solo anno di coabitazione il marito era scomparso. In paese si era sussurrato che fosse fuggito in Germania per rifarsi una nuova vita, ma la sua scomparsa era stata un gran mistero per tutti meno che per lei.

     La sparizione del marito l'aveva fatta precipitare nella miseria più nera. Sfiduciata aveva persino considerato l'idea di prostituirsi per procurarsi il denaro di cui aveva necessità per vivere. Bella non la era granché. Il corpo, sottile e malnutrito, difficilmente avrebbe attirato su di sé le voglie dei maschi del paese. Ciò che l'aveva trattenuta dall'intraprendere la strada della prostituzione era l'umanità che si portava dentro. Un bene prezioso che da sempre aveva caratterizzato la sua vita.
     Senza marito e abbandonata dai parenti era sopravvissuta grazie all'aiuto di alcune donne del paese che, impietosite dallo stato d'indigenza, le avevano procurato una occupazione come domestica a ore. Grazie a quel misero reddito era riuscita a crescere la figlia, poi aveva conosciuto Vincenzo con cui aveva intrapreso una relazione.
     L'uomo, molto più anziano di lei, di mestiere faceva il bracciante agricolo. Prestava l'opera delle sue braccia, unica sua ricchezza, a chi gliene faceva richiesta. Elena si era messa insieme a Vincenzo per disperazione, e non certo per amore, dando inizio a un nuovo corso della propria esistenza.

     Il nuovo compagno, a differenza del marito di cui in paese non si era più avuto sentore, era un grande lavoratore, ma apparteneva alla specie di uomini a cui piace trattenersi all'osteria e bere qualche bicchiere di troppo.
     Quando Elena era andata a convivere con Vincenzo lui per riconoscenza le aveva acquistato la tivù a colori e persino la lavatrice, inoltre, dopo avere firmato un grande numero cambiali, si era comprato una Fiat Ritmo di seconda mano al posto del motofurgone Ape che era solito utilizzare per i suoi spostamenti.
     Nei giorni di festa lei e Vincenzo avevano preso l'abitudine di recarsi al mare, distante solo una trentina di chilometri dalla loro casa. Sennonché da un giorno all'altro il lavoro bracciantile era venuto a meno, e Vincenzo si era trovato ad essere disoccupato. Allora, di comune accordo, avevano abbandonato il paese per migrare al nord.
     Elena aveva trovato una occupazione come operaia in una fabbrica che produceva bicchieri di vetro. Un lavoro, quello della catena di montaggio, infame che però le aveva permesso di guadagnare più denaro di Vincenzo che aveva trovato lavoro come manovale in una cooperativa edile.
     Elena non aveva faticato granché a integrarsi nella realtà metropolitana, al contrario di Vincenzo che aveva ripreso a bere e la sera faceva ritorno a casa ubriaco.
     Con il trascorrere del tempo il loro rapporto era andato via via deteriorandosi. In preda ai fumi dell'alcol Vincenzo non perdeva occasione per accusarla di tradirlo, picchiandola e obbligandola a fare l'amore con la forza, violentandola sempre più spesso. Se Elena cercava di opporsi, offrendogli resistenza, lui la riempiva di botte. Sembrava averci preso gusto a picchiarla, forse anche più del bere.
     Elena era soddisfatta del lavoro in fabbrica. Cresciuta in un piccolo paese del meridione venendo in città era entrata a contatto con una realtà completamente diversa, rimanendo sorpresa dalle confidenze che si scambiavano le compagne di lavoro, soprattutto quando parlavano delle loro vicende sentimentali. Si era stupita non poco nell'ascoltare le loro confessioni.
     Le compagne di lavoro parlavano liberamente di contraccezione, amanti, e abitudini sessuali. Soprattutto Rita, una ragazza d'origine sarda, addetta all'imballaggio del vetro, che non mancava di scandalizzarla con le sue rivelazioni
     - Godo come una troia quando gli uomini mi maltrattano e mi scopano usandomi violenza. A volte sono io stessa che li supplico di sculacciarmi, di legarmi e sottopormi a sevizie d'ogni tipo. Ormai mi eccito soltanto quando vengo picchiata con brutalità.
     Queste e altre confessioni l'avevano confusa. Non riusciva a capacitarsi che molte delle compagne di lavoro riuscissero a godere delle angherie e sopraffazioni cui le sottoponevano i loro uomini. Lei invece delle botte di Vincenzo ne avrebbe fatto volentieri a meno.
     Quando Vincenzo tardava a tornare a casa andava a cercarlo in giro per le osterie o nei bar dove era solito trattenersi a bere. Il più delle volte lo trovava ubriaco, allora lo riaccompagnava a casa rischiando di essere presa a botte per la strada.
     L'unico scopo della sua vita era Raffaella. A lei dedicava ogni attenzione. Era pronta a fare qualsiasi sacrificio per la figlia, anche ad ammazzare Vincenzo. Questo aveva progettato durante la notte trascorsa in ospedale.
 
     Fuori dal Pronto Soccorso lei e Raffaella si fermarono dinanzi alla pensilina degli autobus. Dopo pochi istanti sopraggiunse un mezzo pubblico. A fatica, aiutata dalla figlia, salì i gradini del bus. Andò a sedersi su uno dei seggiolini  riflettendo su come avrebbe ucciso Vincenzo.
     Nell'ultimo mese era la terza volta che ricorreva alle cure dei sanitari del Pronto Soccorso. Ogni volta aveva dichiarato d'essere inciampata nelle scale rovinando a terra, anziché confessare di essere stata percossa con pugni e calci. Ma se al primo ricovero la versione raccontata al personale medico era plausibile, il ripetersi degli stessi episodi l'avevano messa in imbarazzo.

     L'autobus attraversò la città percorrendo la Via Emilia. Il traffico a quell'ora del pomeriggio era intenso. Occorsero all'incirca venti minuti per raggiungere la loro abitazione. L'appartamento dove abitavano era situato al terzo piano di un edificio privo d'ascensore.
     All'inizio della sua relazione con Vincenzo la presenza di Raffaella dentro casa non aveva creato problemi di nessun tipo. L'uomo l'aveva accettata come una figlia, accudendola di un amore paterno, trascorrendo molto insieme a lei. Quando era piccola più di una volta le aveva fatto il bagno. Soltanto quando la ragazza aveva raggiunto l'età della pubertà aveva interrotto questa abitudine. 
     Raffaella si era sviluppata molto precocemente a dispetto dei suoi quattordici anni. A dieci le erano già comparse le prime mestruazioni. Ciò le aveva procurato un certo disagio, ma col trascorrere del tempo aveva saputo accettare l'evento in modo naturale.
     Elena andava orgogliosa della bellezza della figlia. Raffaella era quanto di più importate la vita le avesse riservato. E non avrebbe permesso ad alcuno, tanto meno a Vincenzo, di rovinare quell'angelico fiore.
     Appena misero piede nell'appartamento Raffaella andò a rinchiudersi nella propria camera. Da un po' di tempo la ragazza si era fatta schiva e taciturna, molto diversa dalla Raffaella allegra e spensierata che la madre conosceva. A nulla erano serviti gli inviti di Elena per sapere cosa la turbava, anche se sapeva bene cos'era, sennonché avrebbe voluto che fosse la figlia a confidarsi con lei, cosa che la ragazza si rifiutava di fare.

     Da lì a poco Vincenzo avrebbe fatto ritorno a casa, probabilmente di nuovo ubriaco. Non le restava molto tempo per mettere in pratica il piano che aveva in animo di portare a termine. Il pensiero le martellava nella testa come un maglio.
     Difficilmente avrebbe potuto dimenticare la scena di Vincenzo intento a farsi succhiare il cazzo da Raffaella. In quella occasione aveva fatto ritorno a casa in anticipo per uno sciopero che aveva bloccato la catena d'inscatolamento del vetro. Entrando nella camera di sua figlia l'aveva trovata inginocchiata dinanzi al patrigno con il cazzo in bocca.  
    Mai avrebbe immaginato di assistere a una scena come quella. Incapace di una qualsiasi reazione era scappata piangendo senza che i due si fossero accorti della sua presenza. Una volta fuori di casa aveva girovagato a lungo, senza una meta precisa, camminando sui marciapiedi della città sino a sera. A rientro non aveva fatto cenno a proposito di ciò che aveva visto, né con Vincenzo né con la figlia, ma da quel giorno aveva fatto in modo di non lasciare mai sola Raffaella con Vincenzo.

     La sera precedente il ricovero in ospedale Vincenzo l'aveva riempita di botte perché si era rifiutata di uscire di casa per comperargli le sigarette lasciandolo solo con Raffaella. Al suo rifiuto Vincenzo l'aveva presa a calci spedendola ancora una volta all'ospedale.
     Elena aprì la credenza ed estrasse due coltelli. Le lame erano sufficientemente acuminate poiché le utilizzava quotidianamente per tagliare la carne. Ripose i coltelli dentro una borsa di plastica, dopodiché prese dall'armadio una vestaglia da bagno e uscì dall'appartamento. Discese le scale fino al seminterrato. Dinanzi alla porta della cantina, tirò fuori dalla tasca le chiavi e aprì la serratura. Quando si trovò all'interno del locale sistemò la vestaglia su di un attaccapanni, tolse i coltelli dal sacchetto di plastica e li nascose su di un ripiano, accanto alla rastrelliera delle bottiglie di vino. Trascinandosi lungo il corrimano risalì le scale sino al suo appartamento.
     - Raffaella! Raffaella! - gridò quando mise piede dentro casa. La ragazza uscì dalla propria camera e andò incontro alla madre.
     - Tieni, sono cinquanta euro. Vai ai magazzini Coin e comprati la gonna che ti ha fatto gola nei giorni scorsi. Non avere fretta a tornare a casa. Mi raccomando!
     - Mamma devo studiare!
     - Ubbidisci a tua madre! Se ti dico di uscire, fallo alla svelta. Capito! Voglio restare sola!
     La ragazza conoscendo il carattere irascibile della madre si guardò bene dal contraddirla. Indossò il pullover e uscì di casa sbattendo la porta.
     Nelle ultime ore Elena non aveva smesso un solo istante di pensare a ciò che avrebbe fatto una volta fatto ritorno a casa. Apparecchiata la tavola andò a sedersi su di una poltrona in salotto. Accese la tivù e col telecomando si sintonizzò su Canale 5.
     A quell'ora del pomeriggio andava in onda la puntata di Verissimo, uno dei suoi programmi preferiti. Mentre le immagini scorrevano sullo schermo del televisore, accompagnate dalle esclamazioni del pubblico, stava assorta nei suoi pensieri, concentrata su quello che da lì a poco avrebbe dovuto fare. Tutt'a un tratto udì il rumore delle chiavi che cercavano d'entrare nella toppa della serratura.
     Vincenzo, malsicuro sulle gambe, fece la sua apparizione sullo stipite della porta.
     - Ah! Dunque sei tornata a casa.
     - La cena è pronta, manca solo il vino. Non ho la forza per andare sino in cantina a prendertelo, ma adesso che sei qui potremo andarci insieme.
     - E Raffaella dov'è? Non può andarci lei?
     - E' andata a fare delle compere, fra non molto sarà qui. Il vino però devi andare a prendertelo in cantina. Se vuoi ti accompagno.
     A fatica scesero le scale che conducevano alla cantina. Davanti alla porta Elena arrestò il passo. Con la mano tremolante riuscì a infilare la chiave nel lucchetto. La porta si aprì ed entrarono nella cantina. Premette l'interruttore e una debole luce illuminò il locale. Vincenzo si avvicinò allo scaffale dove erano raggruppate le bottiglie di lambrusco.
     Il cuore di Elena pulsava in maniera disordinata. Mentre Vincenzo teneva le mani strette attorno a un paio di bottiglie, un fendente gli trapassò la schiena in corrispondenza del cuore. L'uomo piegò le ginocchia e si aggrappò a uno degli scaffali di metallo cercando un appoggio. In preda a una furia omicida Elena lo colpi più volte alla schiena con il pugnale. Altri colpi gli trafissero il petto subito dopo.
     Elena si fermò soltanto quando vide Vincenzo cadere esanime per terra. Il sangue gli usciva copioso dalle ferite senza che l'uomo, ormai privo di conoscenza, fosse in grado di porvi rimedio. Elena non pronunciò alcuna parola. Soltanto alcuni grugniti le erano usciti dalle labbra nell'attimo in cui aveva affondato la lama nel torace.
     S'inginocchiò accanto all'uomo e si lasciò andare a un pianto dirotto. Occorsero parecchi minuti prima di potersi riprendere. Da un armadietto prese una delle valigie e la posò sul pavimento. Elena gli girò il capo da un lato e iniziò a togliergli gli abiti di dosso.
    Il dolore al torace provocatole dalle fratture costali l'aveva infastidita parecchio durante quelle manovre. Le occorse parecchio tempo per completare l'opera, ma determinata com'era portò a termine la sua azione.
     Indossò uno dei camici impermeabili che era solita indossare in fabbrica e con un colpo deciso della lama separò la testa dal tronco del compagno. Il sangue, non ancora coagulato, si riversò sul pavimento.
     Impressionata dalla grande quantità di sangue arrestò la sua azione. Da un recipiente prese della segatura e la riversò tutt'attorno il collo del marito in modo da costruire una barriera al diffondersi del sangue. Nella preparazione del piano non aveva previsto quell'inconveniente. Aveva progettato di separare le membra in tanti piccoli frammenti, riporli dentro delle valige, e dissotterrare il tutto nei terreni golenali lungo il fiume, ma non poteva farlo col corpo ancora caldo.
     A fatica si rialzò. Per la prima volta da quando aveva iniziato l'opera fu colta dal panico. Impugnò il coltello da cucina e con decisione recise i testicoli e il pene dell'uomo. Li ripose dentro un involucro di plastica, dopodiché si liberò del camice e degli abiti macchiati di sangue e li abbandonò sul pavimento. Indossata la vestaglia da bagno uscì dalla cantina e rinchiuse la porta alle spalle. Risalì le scale e fece ritorno nel proprio appartamento. Più tardi, di notte, quando il sangue si sarebbe raggrumato avrebbe terminato l'opera, pensò.
     Una volta a casa andò in bagno, fece la doccia e si mise a preparare la cena. Raffaella fece ritorno un'ora più tardi.
     - Ciao mamma, tutto bene?
     - Sì, sto bene non ti preoccupare, ora andiamo a cena.
     Il tavolo era apparecchiato. Si sistemarono ai loro soliti posti. Dopo avere consumato un primo piatto di fettuccine al ragù, Elena prese dal fornello il tegame di stufato di carne e fagioli che aveva preparato con i tessuti estirpati all'inguine del suo uomo. Riversò tutto il contenuto in parti uguali nei loro piatti lasciando il tegame senza una goccia di sugo.
     - Mamma non ne lasciamo un poco anche per papà?
     - Vincenzo se n'è andato via. Un amico gli ha trovato lavoro in Germania, probabilmente non tornerà più, ma resterà per sempre dentro di noi.
     Raffaella sorrise e continuò a mangiare con più gusto.
 

 

 

 
 

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