Nudo,
coricato sul letto, mantenevo lo sguardo
fisso sulle travi del soffitto da cui
pendeva un filo elettrico, intrecciato,
con alla base una lampadina nuda. Rimasi
a lungo a osservarla mentre ciondolava,
senza una direzione precisa, sospinta
dalle folate di vento che entravano
dalla finestra spalancata, mentre le
dita della mano, la destra, fasciate
intorno alla cappella, andavano avanti e
indietro infondendomi un appagante
piacere.
Dalla finestra irrompevano le luci dei
fari di qualche autovettura che
transitava nella strada, adiacente il
caseggiato della mia abitazione,
tracciando strane ombre sulle travi,
distraendomi dai pensieri che occupavano
la mia mente, mentre seguitavo a
toccarmi per raggiungere l'orgasmo e
sborrare.
L'appartamento che occupavo da circa un
anno, un monolocale di trenta metri
quadri, era quanto di meglio potessi
permettermi da studente universitario.
Un cesso alla turca, situato nel
ballatoio, era a disposizione degli
inquilini del terzo piano dove
alloggiavo.
Il
caseggiato, fatiscente, era occupato da
studenti universitari e da un numero
imprecisato di africani, ammassati come
sardine in un paio di appartamenti al
primo piano dell'edificio, relegati a
dormire su delle brande a castello che
arrivavano a sfiorare il soffitto.
La
stanza che mi ospitava mostrava numerose
chiazze di umidità, distribuite a
macchie di leopardo, sull'intonaco delle
pareti, ma non ci facevo troppo caso.
Una
colonia di scarafaggi mi teneva
compagnia nelle ore notturne quando,
silenziosi, si spostavano sul pavimento
dileguandosi ogniqualvolta accendevo la
lampadina che pendeva dal soffitto.
Stavo toccandomi l'uccello, senza
riuscire a eiaculare, quando avvertii
bussare alla porta con una certa
insistenza.
Doveva trattarsi della padrona di casa
cui ero debitore di una mensilità
d'affitto arretrato, ma non c'avevo
nessuna voglia d'intrattenermi in sua
compagnia per quanto fossi eccitato.
Tenevo l'uccello duro e una gran voglia
di eiaculare, ma avrei voluto
alleggerirmi rovesciando lo sperma nella
bocca di qualche ragazza, non certo
addosso a lei. Mi avvilivo ogni volta
che pensavo a quanto fosse decrepita.
Infatti, era più vecchia di mia madre,
con una dentiera che si affrettava a
togliere dalla bocca ogni volta che mi
faceva un pompino. I capelli grigi,
raccolti sopra la testa a formare uno
chignon, le conferivano un aspetto da
strega. Mentre la pelle le cascava dal
corpo in una serie di pieghe alla
maniera di un cappotto che le si
affloscia addosso perché troppo
abbondante.
Mi
bersagliava di attenzioni sessuali e io
facevo di tutto per scansarla, anche se
in cambio di qualche piacere, come
lavare le mie robe e stirarmi le
camicie, sopportavo che ogni tanto mi
facesse qualche pompino. In fondo era
brava a farli e poi una bocca è pur
sempre una bocca anche quando è di una
donna anziana, ma se mi prendeva il
bisogno di scopare preferivo saziarmi
facendo ricorso a carne giovane
piuttosto che mettermi a fare sesso con
lei.
Mi
alzai dal letto e mi avvicinai alla
porta che dava sul pianerottolo, attento
a non fare rumore. Da una fessura
intravidi le gambe e la punta dei suoi
piedi.
Indossava
sandali con sottili strisce di cuoio
marroni da cui spuntavano le unghie
colorate di uno smalto rosso
iridescente. Mi soffermai a guardare gli
alluci perché era l'unica cosa che
gradivo della sua persona. In più di
una occasione mi aveva fatto delle
seghe, stringendomi l'uccello fra le
pieghe della pianta dei piedi, e la cosa
mi era stata gradita. Resistetti al
richiamo dei suoi piedi. Rimasi con la
schiena incollata alla porta augurandomi
che si allontanasse al più presto.
Invece non pareva propensa a farlo.
Seguitò a bussare con una certa
insistenza, consapevole che ero presente
nell'appartamento e io di proposito non le
aprivo.
Nudo,
ritto in piedi, con l'uccello ormai
floscio, temporeggiai in quella posizione
fintanto che, spazientito, decisi di
urlarle addosso tutta la mia rabbia. Ma
quando aprii la porta nel pianerottolo non
trovai nessuno. Era scomparsa nel nulla al
pari di suo marito, deceduto qualche mese
prima, vittima di un infarto. Tornai sui
miei passi, infilai pantaloni e
canottiera, calzai un paio di scarpe
bicolore, bianche e nere, da marinaio,
appartenute al defunto marito della
padrona di casa, dopodiché discesi di
fretta le scale senza guardarmi alle
spalle, raggiunsi la strada, e trovai
rifugio alla Taverna Rossa, uno dei rari
locali dell'Oltretorrente aperti fino
all'alba, distante solo pochi passi dalla
mia abitazione.
La Taverna Rossa a quell'ora della notte
era piena giovani, per lo più
universitari, che frequentavano il locale
perché lo consideravano uno spazio
alternativo, e la birra costava poco.
Raggiunsi il bancone e mi soffermai a
guardare le persone sedute ai tavoli. La
barista, una ragazza dalla pelle olivastra
con la scollatura della camicetta da
mozzare il fiato, mi si fece incontro per
ricevere l'ordinazione.
Nel
locale il chiasso di voci erano
insopportabili al pari della puzza di
sudore che rendeva il posto simile a una
discarica. Mi guardai intorno alla ricerca
di qualche faccia amica con cui scambiare
qualche parola, ma non vidi nessuno, né
maschio né femmina, degno della mia
attenzione.
-
Vuoi dell'altro? - disse la ragazza dopo
avermi servito la birra di malto che le
avevo ordinato in una caraffa di vetro con
manico.
-
Beh, per cominciare potresti dirmi qual è
il tuo nome. Sei nuova del locale? Non ti
ho mai visto qua.
-
Carmen.
-
Uhm... Davvero un bel nome. Uguale a
quello della protagonista di una famosa
opera lirica di Bizet. - dissi dopo avere
sorseggiato parte della schiuma che
giungeva sino all'orlo del bicchiere. -
Hai la pelle ambrata come lei.
-
Altro?
-
Posso domandarti quanti anni hai? E' una
domanda che non andrebbe fatta a una
donna, lo so, però mi ha incuriosito il
tuo bel faccino e il colore della pelle.
Sei carina, lo sai?
-
Adesso però devo lasciarti per soddisfare
le richieste degli altri clienti.
- Non
vuoi dirmelo?
-
Ventidue. Va bene così? - disse
spandendosi in un sorriso a trentadue
denti veri, bianchi, e bene allineati,
mica finti come quelli della mia padrona
di casa.
-
L'età giusta.
-
L'età giusta per cosa? Scusa se te lo
chiedo.
- Per
fare un pompino. - dissi pronunciando la
parola pompino con una certa baldanza,
guardandola fissa negli occhi, certo di
averla sorpresa.
La
ragazza non diede risposta alla mia
provocazione. Quando rispose lo fece
alzando il tono della voce, fingendo di
non avere compreso a pieno il significato
delle mie parole, per colpa del chiasso
presente nel locale.
- Hai detto che vuoi fare un bambino?
- Non proprio, ma non importa. Vai pure.
- Allora vado.
La ragazza si allontanò dalla postazione
che occupava dietro il bancone. La
inseguii con lo sguardo e la vidi mettersi
a disposizione di una coppia di ragazze,
forse lesbiche, a cui servì un paio di
caffè. Ripresi a bere la birra e dopo una
decina di minuti mi allontanai dal locale
deluso per come stavo concludendo la
nottata.
Quando misi il muso fuori dalla Taverna
Rossa la strada era bagnata. Una autobotte
della nettezza urbana stava allontanandosi
dopo avere riversato getti d'acqua
sull'asfalto portato via le chiazze di
piscio lasciate sul marciapiedi da qualche
cliente incontinente della Taverna Rossa.
Raggiunsi il portone del mio caseggiato e
m’infilai dentro. Salii di fretta le tre
rampe di scale che conducevano alla mia
abitazione evitando d'accendere le luci.
Mi premurai di togliere dalla tasca dei
pantaloni il mazzo delle chiavi, di cui mi
sarei servito per aprire la serratura
della mia abitazione, quando la lampada a
soffitto del pianerottolo si accese. Alle
mie spalle udii un fruscio di passi. Mi
girai e la vidi.
La padrona di casa stava con la schiena
appoggiata al muro e guardava nella mia
direzione. Indossava una vestaglia
damascata colore amaranto che le giungeva
fino alle caviglie. Lo spacco della
vestaglia, tenuto opportunamente aperto,
metteva in mostra l’incavo delle cosce
prive di mutande.
- E' questa l'ora di fare ritorno a casa?
Rimasi a osservarla, divertito dal ciuffo
di peli scuri e grigi che le spuntavano
fra le cosce, indeciso su cosa avrei
potuto risponderle. Non disse nessun'altra
parola, mi si avvicinò e mi diede un
bacio sulle labbra. La sua bocca sapeva di
sanguinaccio e pane raffermo. M'infilò
parecchi centimetri di lingua in gola e
con una mano mi strinse l'uccello seppure
protetto dalla patta dei pantaloni,
inspiegabilmente rimasto duro dopo che ero
uscito dalla Taverna Rossa.
- Sono io che ti faccio questo
bell'effetto? - disse mostrandomi la
schiera di denti tutti finti a cui diede
seguito un ampio sorriso.
- Il
fatto è che...
- Non
venirmi a dire che lo hai duro per effetto
di un'altra donna, eh.
- E'
proprio così.
- Non
ci credo.
-
Poco fa ho proposto a una ragazza di farmi
un pompino e mi è rimasto duro.
- La
conosco?
- Non
credo. E' la nuova barista della Taverna
Rossa. Il suo nome è Carmen.
- E
cosa ti ha risposto?
- Ha
finto di non capire qual era il senso
della domanda, eppure gliela avevo posta
in modo abbastanza esplicito.
- Se
non ti ha mandato a fare in culo è segno
che ti gode.
-
Ma...
Senza
troppi preamboli mi sbottonò la patta e
strinse di nuovo l'uccello nella mano.
Intanto, con l'altra, prese ad
accarezzarmi le labbra passandoci sopra
l'estremità delle dita.
-
Sono così sola stanotte. Ti va di fare
finta che io sia lei?
- Si,
facciamo così. - dissi logorato dalla sua
sfacciataggine. - Facciamo finta che tu
sei Carmen. - dissi spingendole il capo
verso il basso.
La padrona di casa s'inginocchiò ai miei
piedi. Infilò la cappella fra le labbra e
incominciò a succhiarla mantenendo la
mano attorno alla radice
dell'uccello.
L'ora
era tarda e non c'era pericolo di essere
scoperti da qualche inquilino. In mio
soccorso scattò il relè a tempo che
comandava l'accensione e lo spegnimento
delle luci delle scale che si smorzarono
proprio quando iniziò a mungermi
l'uccello.
Mi
ritrovai al buio, davanti alla porta del
mio appartamento, con una anziana donna
dal fare assatanato che mi succhiava
l'uccello. Per un breve istante pensai che
le potesse schizzarle via la dentiera
dalla bocca che da poche settimane il
dentista le aveva risistemato.
-
Andiamo dentro. - dissi, obbligandola a
separarsi dall'uccello che accoglieva
nella bocca.
Stavolta
non ebbi difficoltà a ricuperare la
chiave dell'appartamento. Lei si premurò
di togliersi la vestaglia che lasciò
cadere sul pavimento, là dove avrebbe
voluto coricarsi per fare l'amore. Ma
avevo troppo schifo degli scarafaggi che
durante la notte si mettevano in movimento
nella stanza per accontentarla. Andai a
sedermi sul bordo del letto e lasciai che
fosse lei a liberarmi degli abiti che
avevo addosso.
A
letto mi infilai fra le sue gambe, tutt’altro
che lisce per la presenza di vene
varicose, e incominciai a scoparla con
rabbia, come un cavallo da monta. Non
adottammo alcuna precauzione, tanto non ne
avevamo bisogno perché era in menopausa e
nemmeno avevo messo in conto che potesse
trasmettermi qualche malattia venerea,
anche se con la voglia che aveva di
scopare era assai probabile che se la
facesse con qualche altro inquilino della
casa, magari con uno degli africani che
occupavano i due appartamenti al primo
piano del caseggiato.
Impiegai poco tempo a venire deludendo
molte delle sue attese, ma si diede da
fare per farmelo diventare di nuovo duro.
Si mise cavalcioni sopra di me, nella
posizione a smorzacandela, e cominciò a
gemere di piacere mentre mi cavalcava
obbligandomi a mantenere il palmo delle
mani sulle tette flaccide che
ballonzolavano nel buio in simbiosi con il
movimento del bacino.
Raggiunse l'orgasmo con sua grande
soddisfazione facendolo precedere da una
lunga serie di gemiti, infine esplose in
un urlo liberatorio che le squassò il
corpo facendola tremare tutta.
Quando mi svegliai era mattina. La padrona
di casa era in piedi davanti al lavandino
impegnata a risciacquare la dentiera.
Guardai il corpo nudo, illuminato dalla
luce del giorno, e mi chiesi come fossi
stato capace, ancora una volta, di scopare
quella donna. Accortasi che ero sveglio si
premurò di rimettere in bocca la
dentiera, indossò la vestaglia, e venne
verso di me.
Percepii il bacio che mi schioccò sulla
fronte e anche questo atto di gentilezza
mi lasciò stomacato.
Quando uscì dalla porta per fare ritorno
alla sua abitazione, un piano sotto il mio
appartamento, chiusi gli occhi e pensai
alla cameriera della Taverna Rossa.
L'uccello mi tornò duro e ripresi a
dormire.
|